L’edizione 2020 di Linecheck – Online Edition, che si è tenuta durante la Milano Music Week, dal 17 al 19 novembre, è stata un’edizione sui generis. Già nel nostro precedente articolo relativo a questa edizione di Linecheck avevamo sottolineato la necessità di rivedere il ruolo della biglietteria e collaborare per affrontare la pandemia. Dopo aver partecipato e fruito dei numerosi speech e interventi, possiamo dire che diversi sono logicamente i motivi che hanno reso questa edizione particolare e sono intuibili, ma vale la pena ricordarne almeno due.

Il primo motivo si trova nel nome dell’edizione, è di natura tecnica e risiede nella necessità, divenuta poi virtù, di tenere tutti gli incontri, i panel e le masterclass via web. Moltissimi addetti ai lavori del settore musicale – discografici, manager, organizzatori di eventi, rappresentanti di associazioni – hanno preso parte da remoto, da ogni parte del mondo, a uno scambio di punti di vista sullo scenario che l’industria dell’intrattenimento e dei concerti dal vivo si trova attualmente di fronte.

Il secondo motivo risiede proprio nel topic ricorrente, nonché tema cardine di Linecheck 2020: il valore della musica. Il valore della musica sia da un punto vista prettamente economico, ossia del business che ruota attorno ai progetti musicali, sia un punto di vista squisitamente culturale. La pandemia, con tutti i disagi e i problemi che ha portato ai lavoratori dello spettacolo, ha dall’altra parte accelerato alcuni processi e alcune riflessioni che, con riferimento al mercato italiano, erano finora soltanto latenti.

Tra questi, il punto fondamentale toccato in molti dei panel che Linecheck e Milano Music Week hanno offerto è quello della digitalizzazione dell’industria discografica, laddove digitalizzazione si legge smaterializzazione, e la smaterializzazione implica il passaggio da un’economia di possesso a un’economia di accesso. Ma prima di approfondire questa dinamica, vale la pena ricordare qualche dato sull’andamento dell’industria musicale nell’ultimo anno.

Durante la Milano Music Week i numeri ce li ha suggeriti più volte Enzo Mazza, CEO di FIMI, il quale ha sottolineato la crescita inarrestabile dello streaming in questi mesi molto complessi. In termini di ricavi, la crescita degli abbonamenti negli ultimi nove mesi ha rappresentato il 30%; quella dello streaming supportato dalla pubblicità è stata del 10%, mentre il video streaming è cresciuto del 15,4%. Tutto ciò ha trainato il mercato italiano verso una crescita del 3,8%, nonostante un calo molto consistente del mercato fisico (- 40%) e del download (- 25%). Se non bastasse, aggiungiamo che se a dicembre 2019 lo streaming rappresentava il 67% del mercato, a giugno era passato all’80%.

Alla luce di questi dati, nonostante la crescita con riferimento all’ascolto, il principale elemento di discussione tra i discografici non può che essere rimasto quello della valorizzazione del contenuto musicale. Tornando al passaggio dal possesso all’accesso, di fatto oggi l’utente non acquista un prodotto, bensì paga per la fruizione di un contenuto, nella creazione del quale le case discografiche investono risorse umane e finanziarie. Purtroppo, come fa notare Alessandro Massara, presidente di Universal Music Italia, l’Italia ha una tradizione di scarsa valorizzazione dei prodotti musicali, e il consumo di musica registrata è storicamente basso, soprattutto se rapportato a quello di altri Paesi. Questo era vero prima del digitale e lo è ancor di più oggi che la musica viene fruita principalmente in streaming: in Italia, solo il 25% degli utenti di piattaforme come Spotify sono abbonati premium (tutti gli altri sono utenti free), mentre in altri Paesi questo rapporto sfiora il 90%.

A questo punto la domanda è: l’industria può sostenersi, priva com’è della parte live?

Il grido d’allarme proviene soprattutto da parte di operatori medio-piccoli ed è dovuto alla separazione dei business legati, da una parte, alla produzione di musica, e dall’altra all’organizzazione degli spettacoli dal vivo. Come è chiaramente emerso quest’anno, se manca il live, per alcune realtà e, soprattutto, per gli artisti, viene meno il terreno sotto i piedi. E se per artisti già affermati il problema è legato “soltanto” al business del live, per artisti medio-piccoli il problema è anche più grave, perché interessa anche la questione del dove crescere e del come entrare in contatto (stretto) con il pubblico.

Anche per le aziende bisogna ragionare su due punti di vista: quello delle multinazionali e quello delle realtà indipendenti. Da un lato, entrambe hanno dovuto fare i conti con una revisione sostanziale delle pubblicazioni, dall’altro non si può non considerare che le major hanno un netto vantaggio competitivo dovuto al possesso di giganteschi cataloghi di opere pubblicate nei decenni, che ne possono sostenere i ricavi anche in periodi in cui le nuove pubblicazioni scarseggiano, e consentono loro di focalizzare le energie e di investire nella ricerca e nella firma di nuovi artisti. Viceversa, le etichette indipendenti hanno evidentemente bisogno di soluzioni se non altro più creative.

Ci sono allora delle alternative in grado di portare nuovo valore? Non è un caso che opinione condivisa sia quella che diversificare le modalità di sviluppo di un artista sia oggi importantissimo, se non fondamentale. Tanto le major quanto le indies sono ad esempio interessate alla creazione di partnership con brand esterni, per motivi diversi: a partire dalla creazione di contenuti per e con i brand si possono attivare nuove linee di ricavi, ma anche offrire esperienze extra ai fan degli artisti, oltre che promuovere in modo efficace gli album in uscita e il catalogo. L’efficacia risiede nell’evoluzione dei costumi e dei consumi di chi ascolta musica, il che significa che il pubblico deve essere raggiunto attraverso i media che è abituato ad usare. In questo senso, l’esempio più eclatante di questo 2020 è quello riportato con orgoglio da Andrea Rosi, presidente di Sony Music Italy, ossia il concerto di Travis Scott andato in onda su Fortnite che ha registrato il record di giocatori connessi in contemporanea con oltre 12,3 milioni di persone da tutto il mondo. Risultato? Un aumento degli ascoltatori italiani pari a 250 mila persone.

Ma come cambia l’approccio dei discografici in questo scenario? Oltre a quanto detto finora, bisogna considerare il tipo di consumo musicale attuato sulle piattaforme di streaming, come la già citata Spotify, Tidal, Apple Music, Amazon Music, e così via. Attualmente, le strategie di pubblicazione dei contenuti musicali privilegiano, nella maggior parte dei casi, l’uscita di diversi singoli (dai due ai quattro) prima dell’uscita di un album, con lo scopo di attirare attenzione sull’artista e offrire quanto più possibile delle novità, effetto che con la pubblicazione di un album su una piattaforma streaming evidentemente si perde, visto che le canzoni vengono in qualche modo portate al pubblico tutte in un’unica soluzione. Conseguenza: il ciclo di vita di un prodotto discografico si è notevolmente ridotto rispetto all’epoca precedente al digitale, perché quando l’album esce la sua promozione è già quasi finita e nessuno deve essere convinto al suo acquisto.

Si deve poi considerare la user experience offerta dalle piattaforme. Se è vero che oggi sono un alleato fondamentale per tutte le etichette discografiche, non ne si può ignorare la natura sostanzialmente basata sui dati. In alcuni casi, l’utente sceglie la propria musica preferita, mentre in altri si lascia guidare dagli algoritmi che governano le playlist, riducendo al minimo la ricerca e la scoperta di musica diversa da un certo mood veicolato automaticamente dalla piattaforma. Da un punto di vista del valore culturale, le case discografiche assumono allora un nuovo ruolo e una nuova missione: trovare un bilanciamento tra la quantità di opere da pubblicare per incontrare i gusti del pubblico, da una parte, e la qualità dei prodotti offerti, per evitare omologazione e appiattimento artistico, dall’altra.

Consapevole della crisi del live e con la speranza di poter tornare quanto prima ad assistere ai concerti, il messaggio dato da Linecheck è chiaro e lucido: l’industria culturale non deve fermarsi, e le testimonianze portate dagli addetti ai lavori dimostrano che le idee in cantiere sono tante e valide. La scelta di Ticketmaster di essere partner di un evento come Linecheck deriva soprattutto dall’entusiasmo di continuare a portare valore per la musica: sempre più a supporto degli artisti e sempre più a favore dei fan!